Personalmente Stefano Boeri non mi è simpatico. Non mi piacciono i direttori di riviste di architettura che pubblicano propri progetti, i professionisti con un piede sempre nella politica, gli architetti che vincono senza concorso lavori come quello del G8 alla Maddalena.
Penso tuttavia che l’impegno politico diretto di Boeri sia un’occasione straordinaria per Milano, per le città italiane e per l’architettura intesa come motore di sviluppo urbano. Rifiuto il gossip e l’invidia professionale eretti a sistema e penso che un’iniezione di competenza professionale (non solo giustizialista) faccia bene alla politica, nazionale e locale.
Pochi in Italia hanno studiato ed elaborato idee sulla città contemporanea come Stefano Boeri, che con il suo maestro e partner, l’olandese Rem Koolhaas, a mio avviso il più grande architetto vivente, ha lavorato sulla dimensione urbana con un approccio multidisciplinare collegando in modo virtuoso urbanistica, architettura, statistica, demografia, sociologia, marketing, psicologia, arti letterarie e visive. Già le prime uscite programmatiche di Boeri dimostrano che può far fare un salto di qualità al dibattito culturale e politico non solo su Milano, ma sulla città italiana. I servizi come leva per ridisegnare il motore e il funzionamento della metropoli, per esempio. “Va valorizzata la domanda della città, dobbiamo capire i suoi problemi e sviluppare i servizi in grado di risolverli”, ha dichiarato al Sole 24 Ore nella pagina dedicata alle primarie milanesi domenica 19 settembre.
Uno, cento, mille Boeri per le città italiane, quindi. Un architetto: perché le nostre città, pubbliche e private, hanno bisogno di dosi massicce di buona architettura per rompere l’incantesimo di cui sono prigioniere e il groviglio di interessi conservativi che ne impediscono lo sviluppo. A una condizione, però: che la sensibilità di Boeri, la sua visione lucida della città contemporanea e il suo mestiere diventino davvero patrimonio dell’intera città e non restino confinati al gruppo degli amici o degli amici degli amici.
L’impegno a fare architettura solo con i concorsi, per esempio, sarebbe un elemento di rigore destinato a produrre un beneficio forte sulla città, non solo in termini di qualità progettuale, ma anche di trasparenza del dibattito pubblico, tanto più utile quando bisognerà aggredire lo zoccolo duro e conservatore del socialismo municipale che anche a Milano si concretizza nel pesante in house delle società comunali ed è il vero ostacolo a una trasformazione della città in senso contemporaneo.